Società di capitali: Abuso di potere e scioglimento anticipato

Società capitali Abuso potere

Premessa

L’art 2484 codice civile, rubricato “Cause di scioglimento”, recita:

Le società per azioni, in accomandita per azioni e a responsabilità limitata si sciolgono:

  1. Per il decorso del termine;
  2. Per il conseguimento dell’oggetto sociale o per la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo, salvo che l’assemblea, all’uopo convocata senza indugio, non deliberi le opportune modifiche statutarie;
  3. Per l’impossibilità di funzionamento o per la continuata inattività dell’assemblea;
  4. Per la riduzione del capitale al di sotto del minimo legale, salvo quanto è disposto dagli articolo 2447 e 2482 ter;
  5. Nelle ipotesi previste dagli articoli 2437 quater e 2473;
  6. Per deliberazione dell’assemblea;
  7. Per altre cause previste dall’atto costitutivo o dallo statuto.

[La società semplificata a responsabilità limitata si scioglie, oltre che i motivi indicati nel primo comma, per il venir meno del requisito di età di cui all’articolo 2463-bis, in capo a tutti i soci].

Lo scioglimento anticipato della società tramite delibera assembleare è una ipotesi di scioglimento espressamente prevista dall’articolo al comma 6. È un diritto che viene riconosciuto alla maggioranza di porre fine al vincolo contrattuale. Ciò nonostante lo scioglimento anticipato di società è stato in vari casi oggetto di dibattiti, in particolare i soci di minoranza hanno spesso contestato le decisioni dei soci di maggioranza di sciogliere anticipatamente la società, ritenendo tali decisioni ingiustificate alla luce dell’interesse sociale e quindi poste in essere per finalità extrasociali, che di fatto finivano per arrecare un danno ai soci di minoranza stessi.

La strada intrapresa dalla giurisprudenza, in particolare della Corte di Cassazione, nel risolvere questo tipo di questioni, è stata quella di ritenere inapplicabile l’art 2373 c.c relativo al conflitto di interessi, mentre ha fatto riferimento alla figura dell’abuso della regola di maggioranza (altrimenti detto abuso o eccesso di potere).

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Conflitto di interessi e abuso di potere 

L’art 2373 c.c, rubricato “Conflitto di interessi”, al comma 1 recita:

La deliberazione approvata con il voto determinante di coloro che abbiano, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società è impugnabile a norma dell’articolo 2377 qualora possa recarle danno”.

I presupposti per l’applicazione di tale norma sono quindi:

1. Il voto determinante, per l’adozione della delibera, di un socio in conflitto di interessi, ossia portatore di un interesse in contrasto con quello sociale;

2. tale delibera possa potenzialmente arrecare un danno alla società (danno potenziale).

Il problema che così si pone è quello di individuare cosa sia l’interesse sociale: Basandosi sulle teorie contrattualistiche esso deve essere inteso come l’insieme degli interessi comuni dei soci in quanto tali, ossia in quanto parti del contratto di società.

Tra questi interessi si deve sicuramente ricondurre quello allo scioglimento della società.

Tale interesse sociale è, come abbiamo visto, espressamente previsto dall’art 2484 comma 6 c.c. In quanto delibera tipica prevista dal legislatore, lo scioglimento anticipato è sempre conforme all’interesse sociale. Non può esistere quindi un interesse della società alla prosecuzione della propria attività imprenditoriale, altrimenti si cadrebbe in contraddizione.

Di conseguenza si può affermare che il voto favorevole allo scioglimento da parte di un socio non è in conflitto con l’interesse della società, ma si può essere, invece, in presenza di un contrasto tra gli interessi dei soci.

Restano al di fuori della previsione dell’art 2373 c.c tutte le situazioni in cui il socio si determini a votare in modo da arrecare un pregiudizio ad altri soci ma nella “neutralità dell’interesse sociale”.

Si è fatto riferimento alla figura dell’abuso di potere.

L’abuso del diritto è una figura di matrice giurisprudenziale che sta a indicare un esercizio illegittimo di un diritto. L’ordinamento riconosce dei diritti soggettivi, posti a tutela di interessi generali ed astratti, e la nozione di abuso pone dei limiti per i privati nell’esercizio di questi diritti soggettivi. Si ha abuso quando si esercita un diritto in maniera contraria allo scopo per il quale il diritto stesso viene riconosciuto in via generale ed astratta dall’ordinamento.

Individuare lo scopo voluto dall’ordinamento è una operazione di carattere interpretativo, per la quale gli interpreti hanno fatto riferimento ai principi generali dell’ordinamento giuridico, in particolare ai principi della correttezza e buona fede, artt. 1175 e 1375 c.c. Essi consistono nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse della controparte, che vanti, per ipotesi, un interesse contrapposto a quello della prima parte. L’esercizio di un diritto diventa abusivo quando è esercitato in maniera contrastante rispetto ai principi di correttezza e buona fede.

In ambito di diritto commerciale l’esercizio abusivo di un diritto si deve tenere distinto rispetto al caso di conflitto di interessi, anche se sono entrambe ipotesi di vizi che cagionano l’invalidità delle delibere assembleari. Mentre, come visto, nel conflitto di interessi ex art 2373 c.c si ha contrasto tra interesse sociale e interesse del socio, nell’ipotesi dell’abuso, solitamente abuso della maggioranza, si ha un conflitto tra interesse della maggioranza e interesse della minoranza.

Solitamente l’abuso del diritto rileva ai fini dell’esercizio del diritto di voto. Si ha abuso dell’esercizio del diritto di voto quando è esercitato sviando rispetto al perseguimento dell’interesse sociale (che è lo scopo per il quale l’ordinamento attribuisce tale diritto) e questo sviamento si realizza  quando si esercita il diritto di voto non rispettando i principi di correttezza e buona fede. Perché vi sia abuso la lesione dell’interesse del socio minoritario deve essere ingiustificata e arbitraria. La lesione deve intendersi giustificata qualora la delibera stessa realizzi l’interesse della società.

Leading case

Tale ragionamento è stato sviluppato a partire da una sentenza della Corte di Cassazione, n. 11151 del 26 ottobre 1995, la quale può essere considerata il leading case in materia.

La causa in questione riguarda lo scioglimento anticipato di una società a responsabilità limitata adottato con voto favorevole di soci titolari del 70% del capitale sociale. L’attore, assente alla data della delibera, impugnava tale delibera in quanto secondo lui ingiustificata per via del buon andamento della società e adottata al solo scopo di estrometterlo dalla compagine sociale. L’attore riteneva inoltre che alcuni soci favorevoli allo scioglimento versassero in conflitto di interessi.

La società convenuta si opponeva all’accoglimento della domanda. Essa sosteneva che lo scioglimento anticipato era dovuto alla sopravvenuta impossibilità di mantenere i rapporti con il soggetto attore, il quale aveva riportato varie condanne penali a suo carico. Sosteneva poi l’infondatezza degli altri elementi addotti dall’attore.

Il Tribunale di primo grado rigettava la domanda sostenendo che le ragioni della delibera, adottata con la maggioranza prevista, non potevano essere sindacate in quella sede, neppure sotto il profilo dell’eccesso di potere, dell’abuso di maggioranza e della violazione del principio di buona fede.

La sentenza di primo grado viene appellata dall’attore davanti alla Corte di Appello di Roma, deducendo in particolare che eccesso di potere, abuso di maggioranza e violazione del principio di buona fede costituiscono motivi di invalidità delle delibere assembleari.  La Corte territoriale però conferma la decisione del Tribunale.

L’attore si rivolge infine alla Corte di Cassazione chiedendo la cassazione della decisione della Corte di Appello.  L’attore censura la decisione della Corte di Appello, adducendo la violazione degli artt. 2373 e 1375 c.c, assumendo che le delibere assembleari sono illegittime, e quindi invalide, anche quando siano adottate dalla maggioranza dei soci al solo fine di conseguire un proprio personale vantaggio a danno della minoranza.

La Corte esclude che si possa fare riferimento all’art 2373 c.c, in quanto esso riguarda l’ipotesi del socio che ha, per conto proprio o di terzi, un interesse in conflitto con quello della società. Nel caso in questione invece il conflitto si manifesta esclusivamente tra i soci.

Afferma invece che “La delibera assembleare, adottata a proprio esclusivo vantaggio dai soci di maggioranza di una società di capitali in danno di quelli di minoranza, è illegittima ed è impugnabile a norma dell’art 2377 c.c.”. In questo caso, tramite l’art 2377 c.c si denuncia la violazione dell’art 1375 c.c, esecuzione del contratto secondo buona fede. Sulla base di questo principio di diritto la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio della causa ad altra sezione della Corte di Appello di Roma.

Il ragionamento della Corte di Cassazione muove in sostanza dal fondamento contrattuale della società e si articola nel seguente modo:

L’art 1375 c.c stabilisce un impegno di cooperazione che impone a “ciascuna parte di tenere quei comportamenti che, a prescindere dagli obblighi espressamente assunti con il contratto, siano idonei a soddisfare le legittime aspettative dell’altra parte” (Cass. 9 marzo 1991, n. 2053). Questo principio vale per tutti i contratti e, con il riconoscimento legislativo dell’esistenza di contratti con più di due parti, in cui le prestazioni di ciascuna sono dirette al conseguimento di uno scopo comune, vale anche per quelli di società. Tale vincolo contrattuale non è eliminato neanche dalla personificazione della società di capitali ottenuta con la sua costituzione. L’ente è infatti un centro di imputazione meramente transitorio, e la personalità giuridica non è lo statuto di un’entità reale diversa dalle persone fisiche, ma una particolare normativa avente ad oggetto pur sempre relazioni tra uomini.

Il contratto di società è un contratto di organizzazione di una futura attività. L’attuazione del contratto di società presuppone infatti lo svolgimento di un’attività comune e la conseguente creazione di un’organizzazione di gruppo, la quale ha il compito di regolare lo svolgimento dell’attività programmata. Il contratto di società crea perciò una situazione di carattere strumentale. Questa organizzazione di gruppo prevede l’attribuzione alla maggioranza di un potere dispositivo. Di conseguenza le determinazioni prese dai soci durante lo svolgimento del rapporto associativo devono essere considerate atti di esecuzione, preordinati alla attuazione del contratto sociale.

È quindi applicabile anche a tali atti di esecuzione l’art 1375 c.c. Tale disposizione costituisce “una specificazione di un più generale principio di solidarietà che abbraccia tutti i rapporti giuridici obbligatori, anche di origine non contrattuale, vincolando le parti al dovere di lealtà e rispetto della sfera altrui” (art 1175 c.c). In questo modo la corte riesce a regolare anche i casi in cui la società non nasca da contratto, ma ad esempio da atti unipersonali, tramite il ricorso al principio di correttezza fissato dall’art 1175 c.c.

Sulla base di questo ragionamento sono quindi illegittime quelle delibere assembleari che, pur formalmente regolari, sono preordinate ad avvantaggiare alcuni soci in danno di altri, in violazione dei doveri di correttezza e buona fede. Questa affermazione secondo la Corte non implica alcun sindacato di merito (vale a dire sulla convenienza della delibera per l’interesse della società)  poiché presuppone che il voto sia stato esercitato dalla maggioranza in danno di alcuni soci, e quindi al fine di conseguire obiettivi estranei all’interesse della società.

Critiche

Sulla sentenza in questione ha espresso la propria opinione Pier Giusto Jaeger, insigne studioso di diritto commerciale, il quale, pur riconoscendo la portata innovativa della decisione della Corte di Cassazione, compie una serie di osservazioni a riguardo. 

  1. In primo luogo egli sostiene che non si possa escludere a priori l’applicazione dell’art 2373 c.c, per due ragioni.

La prima si basa sul fatto che l’articolo in questione prevede uno strumento a tutela delle minoranze più efficace di quelli che si possono rinvenire nelle regole di buona fede e correttezza. Infatti, se si applica l’art 2373 c.c, per impugnare la delibera è sufficiente provare il pregiudizio potenziale che essa potrebbe arrecare all’interesse della società. Invece l’impugnativa della delibera per abuso di potere prevede la prova del danno effettivamente subito dai soci di minoranza per effetto dell’esecuzione della delibera stessa. Partendo quindi dal presupposto che debbano essere valorizzati tutti gli strumenti di tutela delle minoranze, deve essere scoraggiato ogni tentativo di sottrarre, senza adeguata giustificazione, ambiti di applicazione alla disciplina dettata dall’art 2373 c.c.

Il secondo motivo si basa invece sulla considerazione che non è escluso che si possa delineare un effettivo conflitto di interessi tra socio e società nel momento in cui si realizza un conflitto tra soci. La Corte sostiene che, pur potendosi configurare, anche con riferimento alle delibere di scioglimento anticipato, un conflitto di interessi tra socio e società, mancherebbe in ogni caso un pregiudizio, anche se potenziale, per l’interesse della società stessa. Di conseguenza l’art 2373 c.c risulterebbe inapplicabile. Secondo Jaeger questa affermazione è potenzialmente contraddittoria: se si ammette la possibilità di un conflitto di interessi tra socio e società in ordine allo scioglimento anticipato, si ammette anche che l’interesse della società possa essere pregiudicato dalla delibera stessa di scioglimento. Questa conclusione è ancora più plausibile qualora si ritenga, in una prospettiva contrattualistica, che l’interesse sociale si risolve nell’interesse dei soci alla valorizzazione massima dell’insieme delle loro partecipazioni sociali. Si potrebbero quindi escludere dall’ambito di applicazione dell’art 2373 c.c solo quelle delibere di scioglimento anticipato assunte dalla maggioranza in virtù di un interesse extra-sociale, che risultino neutrali o indifferenti per la valorizzazione delle azioni dei soci.

  • In secondo luogo Jaeger sostiene che sia delicato affermare che l’accertamento del vizio rappresentato dalla violazione del principio di buona fede non comporti alcun sindacato di merito circa la convenienza della delibera per la società. Se ci  è vero in relazione al caso concreto analizzato dalla Corte di Cassazione non è detto che sia vero in via di principio e in ogni caso. Bisogna quindi fare attenzione a non ledere l’autonomia privata. Per assumere la rilevanza giuridica dei motivi nell’esercizio del voto infatti dovrebbe ricorrere un motivo illecito ex art 1345 c.c, e cioè in contrasto con norme imperative poste a tutela di interessi generali. Ed è certamente da escludere che il divieto di perseguire specifiche finalità extra-sociali sia posto nell’interesse generale.
  • Ulteriore dubbio sollevato da Jaeger relativo al riferimento al principio di buona fede è dato dal fatto che nel linguaggio giuridico italiano la buona fede è cooperazione, ed afferma quindi un principio di collaborazione per il raggiungimento di un risultato comune. In sostanza il criterio di buona fede finalizzerebbe il voto all’interesse sociale, mentre è generalmente acquisito che non esiste un obbligo del socio, giuridicamente sanzionabile, di esercitare il voto nell’interesse comune. Sarebbe preferibile secondo Jaeger operare un esclusivo riferimento al principio di correttezza. Corretto è il comportamento che non fa prevalere interessi personali estranei al rapporto al fine di danneggiare gli altri partecipi al rapporto stesso. Il criterio della correttezza in sostanza agisce sempre sugli interessi perseguibili, ma senza imporre un vincolo giuridico di cooperazione al raggiungimento di un concreto risultato.

Le osservazioni di cui ai punti 2 e 3 trovano risposta indiretta in alcune precisazioni contenute in una pronuncia successiva della Corte di Cassazione, n. 27387/2005.

Conferme giurisprudenziali

La giurisprudenza successiva ha spesso preso come riferimento il leading case, basando altre pronunce sull’abuso di potere. Particolare importanza riveste la sentenza n. 27387, del 12 dicembre 2005 della Corte di Cassazione, riguardo a un altro caso di scioglimento anticipato di società. Il nucleo della questione verteva su valutazioni discrezionali e contrastanti di entrambe le parti in ordine alle prospettive future della società. Sulla base delle valutazioni dei soci di minoranza la decisione di sciogliere anticipatamente la società era da considerare in conflitto con l’interesse della società stessa al proseguimento dell’attività. Adducevano poi ulteriori circostanze verificatesi successivamente alla approvazione delle delibere impugnate che, secondo i soci di minoranza stessa, erano indicative del carattere abusivo della decisione del socio di maggioranza.

La corte segue lo stesso ragionamento del leading case: ritiene inapplicabile l’art 2373 c.c relativo al conflitto di interessi, mentre stabilisce che possa essere sindacato l’esercizio del diritto di voto sotto il profilo dell’abuso di potere.

Sotto il profilo del conflitto di interessi la Corte ha affermato che, basandosi sulle teorie contrattualistiche, l’interesse sociale deve essere inteso come l’insieme degli interessi comuni dei soci in quanto parti del contratto di società. Questi possono essere considerati “l’interesse alla produzione di lucro, alla massimizzazione del profitto sociale, inteso come massimizzazione del valore globale delle azioni o delle quote, al controllo della gestione dell’attività sociale, alla distribuzione dell’utile, alla alienabilità della propria partecipazione sociale, alla determinazione della durata del proprio investimento e, quindi, allo scioglimento della società”.

Non è quindi riconducibile agli interessi derivanti dal contratto di società quello alla prosecuzione della propria attività imprenditoriale, come invece sostenevano i soci di minoranza. Esso sarebbe infatti in contrasto con l’interesse sociale allo scioglimento della società, espressamente previsto dal legislatore all’art 2484 comma 6 c.c. Di fatto ci  che si era delineato non era un conflitto tra interesse sociale e interesse extra-sociale del socio di maggioranza, ma piuttosto un conflitto fisiologico tra valutazioni di opportunità operate dai soci e risolto tramite il principio di maggioranza. 

Sotto il profilo dell’abuso di potere la Corte segue l’impostazione della sentenza n. 11151/1995 e fonda il divieto di abuso sulla imposizione del vincolo di correttezza e buona fede alla maggioranza nelle delibere assembleari.

Con una prima importante precisazione la Corte stabilisce che il criterio della buona fede non deve essere inteso a imporre un comportamento a contenuto prestabilito, ma è solo un limite esterno, finalizzato al contemperamento di interessi contrapposti. La cosiddetta regola di maggioranza consente al socio di esercitare liberamente e legittimamente il diritto di voto per il perseguimento di un proprio interesse fino al limite dell’altrui potenziale danno.

L’abuso è quindi causa di annullamento della delibera quando la stessa non trovi giustificazione nell’interesse sociale (ossia si ha un interesse personale dei soci di maggioranza antitetico rispetto a quello sociale), ovvero sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza volta a provocare lesione dei diritti di partecipazione e altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza, poiché è rivolta al conseguimento di interessi extra-sociali. I due requisiti sono richiesti in alternativa e non congiuntamente. La lesione dell’interesse del socio minoritario sarà quindi giustificata quando la delibera stessa realizza l’interesse della società. 

La parte che assume l’illegittimità della delibera in sostanza dovrà farsi carico della prova di indizi, da valutare in concreto, circa la lesione dell’equilibrio contrattuale di buona fede tra i vari interessi sociali. Starà cioè al socio di minoranza l’onere di provare che il socio di maggioranza abbia abusato del proprio diritto di voto.

Il socio di minoranza dovrà a tal fine indicare i “sintomi” di illiceità della delibera in modo da consentire al giudice di verificarne le reali motivazioni e accertare se effettivamente abuso vi sia stato. La Corte è però attenta nel precisare che, all’infuori della ipotesi di un esercizio “ingiustificato” ovvero “fraudolento” del potere di voto ad opera dei soci maggioritari, resta preclusa ogni possibilità di controllo in sede giudiziaria sui motivi che hanno indotto la maggioranza alla votazione della delibera di scioglimento anticipato della società, essendo insindacabili le esigenze relative all’economia individuale del socio che possano averlo indotto a votare in tal senso. La prova non si limita a “sintomi” manifestatisi prima dell’adozione della delibera impugnata ma anche a comportamenti o indizi cronologicamente successivi, in grado di rivelare ex post l’abuso.

Sulla base di queste considerazioni la Corte rigetta il caso in esame. Nella fattispecie i ricorrenti non avevano fornito alcuna dimostrazione dello specifico carattere abusivo del voto determinante lo scioglimento della società, non potendo valere al riguardo il richiamo all’intento di realizzare subito e a tutti i costi la partecipazione sociale, motivazione di voto di per sé né fraudolenta, né ingiustificata.

Riflessioni finali 

Il problema di fondo risiede nella pluralità di interessi concomitanti e nella difficoltà di tracciare una linea di demarcazione tra ci  che riguarda il rapporto tra i soci, ed è quindi riconducibile al consensoinizialmente conferito e all’attuazione di quella volontà, e ci  che attiene all’impresa e alla sua autonomia, ossia quel centro di interessi che da quel consenso iniziale si origina e con il quale i soci stessi si devono costantemente confrontare. L’incontro di questi interessi si realizza nell’organo dell’assemblea, la quale allo stesso tempo è organo della impresa-persona giuridica e punto di incontro e scontro di volontà dei soci.

Il diritto di voto attribuito ai soci dunque pur essendo liberamente esercitabile da ciascuno è pur sempre attribuito in funzione del perseguimento di uno scopo comune. Ci  è confermato dall’art 2373 c.c, il quale deriva dall’esigenza che i rapporti all’interno della società si realizzino attraverso comportamenti coerenti con gli scopi per i quali il contratto sociale è stato originariamente stipulato.

Fuori dall’ipotesi di contrasto tra interesse sociale e interesse dei soci, affidata all’art 2373 c.c, si pu  verificare anche il caso di conflitto tra le posizioni dei soci, la cui soluzione per il momento è affidata alla figura dell’abuso di potere, per il tramite degli artt. 1375 e 1175 c.c.


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